Barbara Serra: Volto di Al Jazeera

Foto Barbara SerraQualche settimana fa ho avuto il piacere di incontrare Barbara Serra. Conduttrice di Al Jazeera English e con un passato alla Bbc, Sky News e Five News, Barbara è anche autrice del libro ‘Gli italiani non sono pigri’ (a cui è stato assegnato la scorsa estate il premio letterario Caccuri). Tra i tanti riconoscimenti ottenuti, ha recentemente vinto anche i “Talented Young Italians Awards” della Camera di Commercio e Industria per il Regno Unito.
Barbara, cresciuta tra l’Italia e la Danimarca, emigrata poi a Londra all’età di 18 anni, conosce  bene sia la cultura italiana che quella anglosassone.

Parla molto nel suo libro di competizione e meritocrazia e anche di come presentarsi ai datori di lavoro inglesi, per questo che Barbara crede molto nel progetto di CV&Coffee e capisce l’utilità di un servizio che aiuti gli italiani a rendersi più competitivi in un contesto difficile e complesso come quello anglosassone. Ho conosciuto la prima volta Barbara lo scorso gennaio 2014 quando, a seguito di un nostro tweet, ci chiese più informazioni sul nostro progetto (viva i social media!). L’ho poi rincontrata, velocemente,  alla presentazione del suo libro in cui era presente anche Beppe Severgnini. Lo scorso ottobre, Barbara ha menzionato CV&Coffee alla Rai durante il programma Virus di Nicola Porro in cui era ospite anche il Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
È un onore per me intervistarla sorseggiando un pepper mint thé (e non un caffè!) e conoscerla meglio (senza una revisione CV, di cui  non ha certamente bisogno).

Riceverai molti CV alla redazione di Al Jazeera di candidati italiani. Quali sono gli errori più comuni dei connazionali in cerca di lavoro?
Si, mi arrivano tanti CV italiani perchè spesso lavoro per la tv italiana. La differenza principale che noto è nei contenuti. Non si può arrivare a 23 anni, dire di aver sempre sognato di fare giornalismo, senza aver nessun tipo di esperienza nel settore.  Quando chiedo ‘avrai lavorato al giornalino della scuola o a quello dell’università, hai mai scritto per un web?’ e rispondono ‘no’.  Non mi aspetto tre mesi al Corriere della Sera, però nel giornalino locale o della scuola si, anche nel posto più sperduto, si può sempre essere coinvolti in attività locali. So benissimo che in Italia sia più difficile, anche per ragioni legali, ma si può sempre far qualcosa e mi sorprende molto quando non hanno mai fatto niente però si sono autoconvinti di amare il giornalismo. A 18 anni va bene, ma a 25 se non hai ancora fatto niente per dare prova del tuo amore, allora mi sorgono dei dubbi.

Nel libro si parla di Costanza Maio e Rosa Battaglia, ci puoi dire chi sono queste due persone?
Sono fra le giovani che ammiro più al mondo per ragioni molto diverse. Rosa Battaglia è mia cugina e penso sempre a Rosa Battaglia e a quello che io sarei fiera di essere se mia mamma non se ne fosse andata da Gela in Sicilia. Io sono nata a Milano e poi cresciuta in Danimarca.
Rosa Battaglia ha 32 anni, ha sempre lavorato tantissimo con il sogno di fare la giornalista, poi diventato realtà. Rosa aveva una grande determinazione, ha lavorato sodo, ha imparato l’inglese volando con la Ryan Air e facendo dei turni massacranti. Oggi Rosa ha un sito che si chiama Visioni di Oggi, un contenitore di varie notizie nella realtà siciliana e lei è una che ha lottato contro il sistema ed è riuscita nel suo intento, nonostante tutte le difficoltà.
Costanza Maio invece è riuscita grazie al sistema (casualità il nome di Costanza e il cognome di Rosa Battaglia, sorride Barbara). Costanza ha 21 anni, nata da genitori italiani di Perugia, poi emigrati in America quando lei aveva solo 7 anni. Il sistema americano ha incoraggiato le sue ambizioni, tutte le sue esperienze ad esempio in Mali come volontaria, uno stage alla CNN di Abu Dhabi e tanto altro.
Vedo queste due persone come due esempi: stessa determinazione, stesso talento, stessa personalità ma con le differenze del sistema e Rosa ha dovuto lottare molto di più. Perciò se devo essere onesta, ammiro più la sua tenacita’.

Costanza Maio, aiutata dal sistema e dalle università americane che lavorano molto bene con i loro career cousellors. Nelle università italiane queste realtà di supporto e di guida mancano. Avere dei career counsellors nelle nostre università renderebbe più semplice l’inserimento nel mercato del lavoro degli studenti?
I ragazzi italiani, almeno l’80% di quelli che incontro, sono completamente persi. Non hanno la più pallida idea di cosa voglia dire gestirsi una carriera, iniziare a lavorare perchè in Italia non c’è mai stata la possibilità di scelta, non essendoci una meritocrazia molto estesa, le persone si danno per vinta già in partenza. Che senso ha quindi essere ambiziosi se già sai che quel posto di lavoro andrà al figlio di papà?
Non hanno idea di come progettare un percorso di carriera. Non è che a 16 anni ti svegli e dici ‘voglio diventare giornalista, astronauta, venditore, etc’ ma è anche a 16 anni che devi cominciare a pensare al tuo futuro e bisogna farlo in maniera realistica, identificando quelli che sono i propri punti di forza. E’ importante cominciare a fare i primi passi da giovane per esplorare opportunità ed eliminare quello che non ci piace fare. E anche per sapere cosa significa lavorare.
Il mio primo giorno di lavoro è stato uno shock. Non era certo alla BBC ma in un negozio di vestiti a Covent Garden dove lavoravo il sabato quando ero ancora all’universita. Lì ho capito cosa significa stare in piedi per otto ore al giorno, cosa vuol dire che quelle otto ore della giornata non sono tue, è il tempo che appartiene a qualcun’altro.
I ragazzi italiani non sono preparati, molto spesso le famiglie frenano invece che incoraggiare perchè l’idea di fare esperienze di lavoro da ragazzini e’ spesso vista come una cosa strana.
Certe restrizioni e le aziende non aiutano ma le famiglie anche non incoraggiano. I quindicenni italiani sono visti come bambini, i quindicenni inglesi non sono visti come bambini.

Nel libro c’è un capitolo interamente dedicato alla meritocrazia e alla competizione.   Cito dal tuo libro “Parlare di meritocrazia è inutile se non si citano anche le sue sorelle, competizione e ambizione. Parole che non sento molto citate nel dibattito pubblico italiano”.
Perchè competizione e ambizione vanno di pari passo con la meritocrazia? 
Cosa vuol dire meritocrazia? Che il lavoro va a chi se lo merita. Come scegli la persona che si merita il lavoro? Chi si merita il lavoro non è necessariamente chi ha studiato di più, chi ha aspettato più  a lungo. Chi se lo merita vuol dire chi è la persona migliore per quel lavoro. Nel momento in cui si usa la parola migliore, devi selezionare. Non basta essere bravo, non è quella la meritocrazia, non è quello che crea un sistema efficiente. Senza entrare troppo nei dettagli, il sistema italiano non è spesso efficiente perchè sai che non c’è la persona migliore a capo dell’azienda. La competizione è quella: devi selezionare.

Come puoi renderti allora la persona migliore per quel lavoro?
Lo vedo subito quando qualcuno  mi manda un CV per lavorare ad Al-Jazeera e non ha personalizzato il documento.  Bisogna avere uno scheletro di CV e per ogni domanda di lavoro, adattare il documento all’offerta di lavoro. Non puoi mandare lo stesso CV che mandi ad Al-Jazeera, lo stesso CV che mandi alla BBC o alla CNN o alla Rai. You have to tailor it!
Non mi importa dunque se hai preso 110 lode, se hai sempre dato prova di essere uno studente modello, quello che mi serve è avere la persona migliore che selezionerò per quel lavoro.
Vedo che in Italia ci si spaventa molto della competizione. La frase molto spessa utilizzata è quella della ‘competizione spietata’, come se si andasse in giro a prendere a coltellate qualcuno. Si può competere senza diventare qualcuno che non guarda in faccia a nessuno. È un’illusione, anzi peggio, una bugia, far finta che esista la meritocrazia senza la competizione perciò non capisco perchè la gente sia così spaventata. Se arriva un fallimento, you take it on the chin.
Se io ho scritto un libro, non è perchè sono stata la migliore ma per le centomila volte che ho fallito. In Italia siamo molto severi con il concetto del fallimento. In America, è un’esperienza: se non hai fallito almeno cinque volte non ti prendono neanche seriamente.
E tutta la competizione viene dall’ambizione. Di nuovo, non vuol dire calpestare ma svegliarsi la mattina e dire ‘voglio cercare di dirigere la mia vita’.  È importante capire cosa si vuole. Questa è ambizione. Altra parola che in Italia è vista in un’accezione negativa, nasce dall’idea del credersi migliore degli altri. Io non la interpreto in questo modo.

Non c’è ambizione perchè spesso mancano anche gli obiettivi?
Beh, mancano anche i risultati che si ottengono in un sistema meritocratico. Riporto una frase americana nel mio libro “i vincitori fanno quello che i perdenti non vogliono fare”. Ma questa mentalità funziona in sistemi meritocratici come l’America. I sacrifici che ho fatto negli ultimi 20 anni, più o meno, sono stati riscattati. Se invece, come capita in Italia, lo fai per cinque anni e non vedi che cambia nulla, ti arrendi. Ti arrendi all’evidenza e non perchè sei pigro, codardo o altro ma perchè sei in un sistema che non funziona. Ma il cambiamento del sistema deve andare mano nella mano col cambiamento di mentalità, che ovviamente non può avvenire fino a quando non cambia il sistema. È per questo che l’Italia è in un circolo vizioso.

A proposito di sacrifici, qual è stato il tuo primo lavoro nel settore del giornalismo?
Durante l’università ero entrata nella Help Line telefonica di Capital Radio. Un lavoro non pagato, ero lì il sabato e rispondevo alle domande degli utenti. Poi da lì, avendo dimostrato di lavorare con puntualità,   dedizione e impegno sono passata al dipartimento di marketing. Ho capito però che era difficile fare il salto dal Marketing al giornalismo. Ho perciò deciso di fare un Master e ho cominciato ad andare una volta alla settimana all’allora programma Greater London Radio, ora BBC Breakfast London Radio,  dalle 6 alle 9 di mattina, prima di cominciare le mie lezioni universitarie.  Non sapevo nulla quando ho cominciato, era nel ’98. Aprivo la porta agli ospiti, facevo il thè, sfogliavo i giornali.  Quella esperienza fu cruciale per poi entrare nel Masters di giornalismo della City University. Dopo il Master, è stato più facile avere internships, e poi eventualmente impieghi da giornalista.

Riceviamo molti CV di persone che vorrebbero lavorare nel mondo della comunicazione come giornalisti. Che consigli daresti a chi vuole intraprendere una carriera nel settore qui in UK, a parte l’ovvia conoscenza linguistica?
Rendersi conto che il giornalismo è fra i campi più difficili in cui entrare per uno straniero. Il giornalismo è prettamente legato alla conoscenza del tuo pubblico e se arrivi qui dall’Italia, non hai conoscenza del sistema, ma soprattutto non conosci il tuo pubblico. Anche ad avere un inglese perfetto, si avrebbero delle  difficoltà. Devi sapere con chi stai parlando e capirli. Il mio primo lavoro da giornalista l’ho ottenuto a 25 anni, dopo 7 dal trasferimento qui in Inghilterra perciò avevo già una buona conoscenza del sistema e della cultura. E non fu affatto facile. Il primo suggerimento è quello di essere realisti. Non so, è come se un tedesco volesse lavorare a Uno Mattina appena arrivato in Italia, cosa capirebbero del suo pubblico?
Altro consiglio riguarda il CV. Quello che mi sorprende sempre è che non conoscono il prodotto. La cosa che mi fa più sorridere sono gli italiani che mi vedono nella tv italiana, sapendo di lavorare ad Al Jazeera mi contattano. Alla mia domanda sul perchè vogliono lavorare con il nostro team, mi dicono “Perchè c’eri tu” – Come se, da italiana,  li potessi raccomandare. Al-Jazeera non è il posto migliore per iniziare, è quasi sempre meglio iniziare in testate piu’ piccole. Se hai una passione per il Medio Oriente va bene, ma se invece ti piace la finanza vai a Bloomberg. Bisogna pensare a quali sono i propri punti di forza e in cosa abbiamo un’ottima conoscenza. La prima domanda che farei è cosa pensi di Al-Jazeera? E non si può rispondere “It’s nice”. Voglio sentirmi dire“Ieri sera guardavo tutti i TG delle 18 e voi avete aperto con la Siria, la BBC ha fatto questo, France 24 ha trattato un altro tema, la CNN un’altro ancora, e capisco perchè avete preso tutti decisioni editoriali diverse”. Io voglio un’analisi, voglio sapere che nelle ultime settimana hai mangiato, respirato, dormito Al-Jazeera. Se non hai la passione, ci sarà qualcuno altro.
Riassumendo: capire i limiti del giornalismo, conoscere il prodotto e pensare al valore aggiunto da apportare. Altra risposta tipica è “vorrei lavorare ad Al-Jazeera perchè sono molto interessata al mondo arabo’. Bene, vai a farti un Master sugli studi culturali arabi, non sono tua zia. Devi dirmi cosa apporti al team. Capisco che se sei giovane hai poca esperienza ma si può apportare l’entusiasmo, energia, passione, idee. Valgono tantissimo.

Perchè secondo te abbiamo assistito negli ultimi 12 mesi ad un esodo degli italiani a Londra?
Perchè quella che viene chiamata in Italia crisi non è una crisi ma una resa dei conti. Per anni e decenni, c’è stato un sistema che non funzionava. Mi ricordo le tre frasi che sentivo sempre dai miei coetanei “Tanto tutto il mondo è il Paese” – cosa non vera perchè la crisi ha colpito l’Italia di più – “Tanto l’Italia funziona comunque” – ovviamente no.  “Tanto non cambia nulla” invece è cambiato tutto ed in peggio.
C’era quasi l’illusione che la corruzione potesse essere in qualche modo accettata assieme all’assenza di meritocrazia tanto si sarebbe andato avanti comunque. E invece no, gli italiani non possono comportarsi da arabi e pretendere uno stile di vita da scandinavi. E’ quello il problema. Ed è arrivata la resa dei conti.
Però per me i ventenni di ora hanno molte più opportunità con internet. Non mi piace sentire piagnistei sulla crisi del giornalismo. Quando io ho cominciato, non c’era BBC World, non c’era Rai News 24, non c’era Sky TG 24, non c’era TGCom, Twitter e tanto altro. Il giornalismo sta cambiando, meno soldi e piu’ piattaforme. Il classico TG delle 20 non esisterà più probabilmente tra 10 anni. Tutto andrà sui canali All News. Ci sono mille opportunità ma devi adattarti e te le devi creare, riuscendo anche a a saper diversificare e usare la nuova tecnologia. Un giornalista deve sapere fare riprese, il montaggio etc. Non dico che il giornalista debba essere al pari di un cameraman ma con l’Ipad oggi puoi fare tutto e se succede qualcosa, devi saper rispondere al meglio. Non ci sono scuse.
Gli italiani arrivano per questa crisi e per un’illusione. Londra è piena di opportunità ma chi arriva crede molto spesso che qui sia tutto facile. Vengono perchè, a volte, abbandonano troppo presto l’Italia. C’è crisi sicuramente ma la meritocrazia, seppur in parte minore, esiste. Ci sono persone che dal nulla sono diventate qualcuno,  che hanno avuto delle ottime idee. Si fanno convincere che non c’è più nulla in Italia, che qui sia tutto più semplice, che qui avranno quello che gli è dovuto. Ma niente è dovuto. E lo capisci in due secondi qui a Londra. Il mondo è grande e la competizione è tanta.  Avere l’attitudine giusta qui è essenziale.

Per chi è in partenza cosa consigli?
Di imparare l’inglese. È come se un arabo entrasse nella redazione del Corriere della Sera e con un italiano un po’ rotto, cominciasse a chiedere lavoro. Non parlucchiare, ma arrivare con una buona conoscenza. Siamo nell’era di Youtube e c’è moltissimo materiale a disposizione in lingua inglese.  Non c’e bisogno di un mese in una scuola di Oxford.
Da un punto di vista emotivo, capire che non è sempre bello essere stranieri. Per quanto Londra sia la capitale del mondo, non sei a casa, non sei tra i tuoi ma in un paese straniero. Si perde un po’ la propria identità e individualità, sarai sempre un italiano. Se chiedi ai miei colleghi di descrivermi, la prima cosa che direbbero è che sono italiana. Non è facile ma ci sono anche tanti altri aspetti positivi. Però se è la prima esperienza all’estero, non sarà facile.

Ma come sono visti gli italiani dagli stranieri?
Sei quel che sei. Non puoi venire qui e fare finta di essere inglese. L’accento fa parte della nostra identità. Magari parleremo inglese con un madrelingua che però non sa neppure ordinare una pizza in una seconda lingua. Non possiamo flagellarci, si è quel che si è. E ad essere italiani ci invidiano tutti. Ogni volta che sono in giro per il mondo e mi chiedono di dove sono “I am Italian” – “Really?”. Per quanto noi ci lamentiamo del sistema, il nostro paese è fantastico.

E lavorativamente parlando essere italiani può rappresentare un limite?
Dipende dal lavoro. Difficilmente rappresenta un vantaggio ad essere onesta. In certi contesti, non so se l’essere stranieri sarà mai un vantaggio. Essere greco e cercare lavoro in Italia è un vantaggio? E’ la stessa cosa, con la differenza che Londra è più aperta, il 40 % delle persone che vive qui è nata in altri paesi. Io non mi sento inglese ma sono sicuramente londinese e lo sono più di tanti miei colleghi. Sono qui perchè l’ho scelta questa città e ne sono felice.

Intervista di Teresa Pastena