Intervista a Luca Vullo

 

Nome: LLuca Vullo uca

Età: 35.

Italiano di: Caltanissetta, nel centro della Sicilia.

Professione: Sono un regista, produttore ed autore cinematografico.

Parlaci un po’ della tua formazione professionale, ed ancora prima, del tuo percorso di studi.
Il mio percorso di studi è assolutamente anomalo, nel senso che il mio non è il classico caso di chi da bambino voleva fare il regista: non sapevo quale fosse la mia attitudine e – lo dico senza rancore e constatando la realtà dei fatti – nessuna delle istituzioni che ho frequentato, in particolare la scuola, mi ha mai indirizzato verso questa professione, seguendo, come fanno in altri Paesi, l’orientamento e le mie skills. Per cui, un po’ come le “corde pazze” ho fatto dei voli pindarici passando da Economia e Commercio al DAMS di Bologna, dove ho studiato cinema fino a quando ho mollato del tutto il discorso universitario e mi sono messo a lavorare. Ho creato la mia casa di produzione – Ondemotive Production – e ho cominciato a darmi da fare. Da qui il mio percorso pratico si è formato con i laboratori e con tutte le esperienze lavorative che ho fatto sul territorio; ho cominciato a produrre le mie cose in Sicilia e da qui è iniziato tutto.

Da quanto tempo sei in UK, cosa ti ha spinto a trasferirti qui, e perchè a Londra nello specifico.
Io sono qui da un anno e mezzo, più o meno, anche se fino a dicembre ho avuto la mia casa di produzione ancora in Italia. Poi l’ho chiusa definitivamente e trasferita qui a Londra con me. Londra in realtà non è stata una scelta premeditata e strategica, non era la città che avevo pensato da anni; è stata una causalità fortuita: avevo sicuramente deciso di partire dall’Italia perché ero arrivato alla saturazione totale, psicologica ed emotiva, non potevo più stare lì. Avevo ipotizzato altri Paesi – la Francia piuttosto che gli Stati Uniti (per ricollegarmi anche al discorso cinematografico) – ma la vita mi ha portato a conoscere la mia attuale ragazza che è Eva Cammarata, una fashion designer siciliana che viveva qui già da diversi anni. Questo incontro è stata la molla che ha fatto scattare tutto, e da li ho detto “perchè no”.

Quindi hai avuto il tempo di sperimentare la tua professione in Italia, che differenze lavorative hai riscontrato rispetto al Mondo anglosassone, dove si lavora meglio?
Prima di tutto specifichiamo che essendo un libero professionista non seguo le linee standard del mercato lavorativo, quindi è difficile per me parlare troppo in generale su questo campo, posso descrivere quello che mi è successo nell’arco di un anno e mezzo qui in Inghilterra, muovendomi allo stesso identico modo di come mi muovevo in Italia, con le mie capacità, mettendo sul tavolo tutto quello che ero in grado di fare. Considera anche che la mia conoscenza della lingua inglese era terrificante, quindi per me è stato un trauma anche psicologico, cosa alquanto comune a diversi italiani ho notato. Devo tra l’altro testimoniare che la mia padronanza dell’inglese è ancora oggi poco efficiente. Questo pure essendo un limite fortissimo, come si può immaginare, allo stesso tempo non mi ha fermato perché sapevo che potevo offrire qualcosa delle mie competenze e delle mie skills che era il mio background lavorativo di anni, in un territorio complicato dove tutto quello che fai non è facile, dove devi trovare sistemi e strategie per stare a galla ed inventarti modi per sopravvivere con il lavoro che fai. Qui invece, quello che ho trovato è stata un’apertura assoluta, una curiosità totale su quello che viene proposto, purchè di qualità. Perché non importa chi sei e da dove vieni, ma importa quello che sai fare. Avere la possibilità di confrontarmi con istituzioni, anche importanti, sia italiane che inglesi con franchezza e tranquillità, pur non essendo figlio di e non avendo le amicizie X per me è stato come un orgasmo! Ecco così, panza e presenza, con i miei dvd, i miei lavori ed il mio background mi sono mosso ed ho ottenuto dei risultati che in Italia neanche in 10 anni ho potuto conseguire.

La cosiddetta meritocrazia, che non è una chimera qui ma una solida realtà.
Si, e la cosa incredibile è che nonostante questo gap linguistico, la situazione si è ribaltata talmente tanto che il documentario sulla gestualità “La Voce del Corpo” è diventato uno strumento che consente a me di insegnare a loro. Paradossale se paragoniamo a quello che succede in Italia!

Quindi possiamo dire che oltre alla professione di regista, stai facendo anche qualcosa in più e di diverso rispetto al motivo per il quale eri venuto, insegni nelle Università? Parlaci un poco nello specifico di questa esperienza.
Il tutto è partito con il National Theatre che mi ha contattato dopo 2-3 mesi che mi ero trasferito. Quindi immaginati la sorpresa di trovarmi ad essere interpellato da un’istituzione così importante! Il teatro stava preparando uno spettacolo su Liolà di Pirandello e la segretaria di produzione si trovò ad una delle mie prime proiezioni all’Istituto di cultura Italiana di Londra. E questa è anche parte di una strategia, ecco, io sono arrivato qui con una strategia.

Spiegacela.
Quando sono arrivato mi sono subito immesso in tutti i canali possibili, a me vicini o che potevano essere interessati al mio lavoro, per proporre quello che già avevo fatto in ottica di progetti futuri. Questa cosa ha funzionato tanto che mi hanno chiesto di fare lezione ai 45 attori dello spettacolo, tutti irlandesi, proprio per dare quell’elemento di “sicilianità” che solo un esperto di gestualità quale loro mi definivano poteva dare.

Fantastico, e come è stata la ricezione da parte di questi attori?
Sono impazziti completamente! E’ stata una delle esperienze più belle della mia vita, perché lì ho veramente capito che il bagaglio culturale che noi italiani abbiamo, gratuito, per altri è qualcosa di stupefacente, di meraviglioso e da studiare. Questo passaggio è stato per me cruciale perché a parte l’entusiasmo, vedere lo spettacolo fare 3 mesi di sold out ha fatto un certo effetto. Da questo poi è partito un effetto a catena perché sono stato intervistato dal The Guardian e dalla BBC, poi mi hanno cominciato a contattare le Università chiedendomi se ero disponibile per dei workshop pratici per gli studenti. E così via con questo tormentone che ancora oggi continua e si espande. Sono appena tornato dall’Australia, poi andrò in Germania, in Norvegia, in America. Insomma, è partito un movimento sulla base di quello che avevo già fatto, ma che in Italia non riusciva a produrmi nessun risultato rilevante.

In alcuni dei tuoi corti, come la “Voce del Corpo” e “Cumu Veni si Cunta” si nota il forte attaccamento verso la tua terra, Caltanissetta, ed in generale a tutte le peculiarità che rendono unico il nostro popolo; credi che questa italianità, queste forti radici di appartenenza, possano costituire ancora un valore aggiunto in una società ed un mercato del lavoro come quello inglese?
Secondo me si, ed è una cosa che si vede in tutto il mondo. Dovunque abbia viaggiato, ho notato un interesse crescente verso lo studio della lingua e della cultura italiana che hanno un fascino straordinario in tutto il mondo. In particolare il gusto e lo stile italiano, e parliamo di qualunque forma artistica, di design piuttosto che del fashion e del cibo, hanno estimatori in ogni dove. Nonostante tutto, ancora facciamo scuola su tante cose. E’ anche vero che probabilmente negli ultimi anni abbiamo un po’ perso dei colpi dal punto di vista della credibilità politica e come immagine di Paese.

Certo, ricordiamo che abbiamo avuto un Ministro dell’Economia che diceva che la cultura non da da mangiare.
Esatto, però per fortuna – e questa è secondo me la vera chiave di volta – nel mondo c’è tantissima curiosità nel conoscere il “bello” dell’Italia, che ha permesso a questo di non morire. Per cui l’essere italiano per me è assolutamente un orgoglio ed un vantaggio.

Ritornando all’inizio del discorso, hai detto che hai fatto diversi tentativi prima di trovare la tua strada, ci spieghi come è nata la tua passione per la regia e in generale per il cinema, e cosa ti sentiresti di consigliare ad altri giovani italiani che decidono di approcciarsi a questo mestiere, in un Paese con tutte le difficoltà che hai appena elencato.
L’ispirazione per fare questo lavoro è nata per gioco, facendo esperimenti di cortometraggi con amici, con quei pochi mezzi che avevamo. Questa esperienza mi ha fatto capire che costruire un messaggio e trasferire emozioni tramite l’audiovisivo era esattamente quello di cui avevo bisogno per esprimere la mia creatività. Poi quando realizzai il mio primo documentario (Cumu veni si cunta), mi sono reso conto che col solo uso di una telecamera ed un microfono amatoriali, ma con una storia e personaggi forti uniti ad una bella idea, la cosa funzionava benissimo. Il film è piaciuto tanto, ha girato tutto il mondo. Per cui lì, l’autostima è cresciuta e mi si è data la conferma che quella lì era la strada giusta. Da quel momento in poi però mi sono buttato a capofitto, non avendo grandi basi economiche alle spalle, me ne sono fregato e sono andato avanti, cosa che consiglierei di fare in ogni caso a tutti quelli che sognano questo lavoro. Di sicuro non è un’impresa facile, però io credo che i sogni bisogna inseguirli, senza fermarsi agli ostacoli. Quello che ho imparato in Italia forse è proprio questo: risolvere costantemente problemi.

Può essere considerato quasi come uno skill in più che ti porti dietro, parte di quell bagaglio di “italianità” di cui parlavamo prima: il dover gestire tante di quelle difficoltà che magari una persona che inizia qui non si immagina minimamente e non sarà mai preparata ad affrontare.
Esattamente.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
I miei prossimi progetti sono, nell’immediato un nuovo documentario che sarà sull’immigrazione italiana nella Londra contemporanea, un progetto abbastanza particolare in collaborazione col Consolato Generale, l’Ambasciata, il Ministero degli Esteri ecc. Che analizza dal punto di vista di Londra, quello che sta succedendo in Italia ed agli italiani, girato nella capitale britannica, e che completerò entro la fine dell’anno. Poi sto lavorando al mio primo lungometraggio che girerò probabilmente tra Italia ed Inghilterra, anche se fantasticando, le locations principali sarebbero anche in America. Però è ancora troppo presto per dirlo, dipende dal budget! Sarà una cosa completamente diversa da quello che ho fatto finora – un po’ una mia caratteristica, sperimentare sempre nuove strade, pur mantenendo intatti alcuni fili comuni – quindi non so neanche dirti che genere sarà. Intanto continuo con le mie “lezioni” e con incontri e convegni in giro per il mondo, la settimana prossima sarò per esempio in Belgio, ospite di una delegazione dell’ANFE (Associazione Nazionale Famiglie degli Emigrati) per presentare il documentario “Dallo zolfo al carbone” (documentario sulle condizioni di vita degli emigranti italiani nelle miniere di carbone degli anni 50′) con delle proiezioni e degli incontri universitari che vedranno presente anche il primo Ministro Belga Elio di Rupo, di origini italiani e con un padre minatore. Tutto questo nell’ambito della commemorazione delle vittime del disastro di Marcinelle. Una cosa pazzesca, tutto questo nonostante avessi girato il documentario nel lontano 2008. Infine sto realizzando un cortometraggio con i bambini che frequentano corsi di italiano a Londra, insieme all’Ufficio Scolastico del Consolato e il COASIT. Troppa roba insomma!

Vedi, anche se è probabilmente presto parlarne ora, il tuo futuro nuovamente in Italia?
Fondamentalmente non prevedo di tornare in Italia adesso, non sono interessato. Tornare ogni tanto con dei progetti, per la famiglia o per gli amici va benissimo, ma non riuscirei a viverci adesso, se non in circostanze completamente diverse. Con delle regole che stabilisco io e a condizioni economiche e di status di vita differenti. Ma soffrirei comunque, se il meccanismo di sistema rimane lo stesso. In futuro chissà, probabilmente si, perché l’Italia comunque la amo, è un Paese stupendo che mi piace tantissimo, e quando torno è sempre una gioia; ma viverci è un’altra cosa ed io ci ho già vissuto e sofferto parecchio. O ci torni da vincitore, o tornare significa fare 10 passi indietro.

Ed ora un’ultima domanda: come ti trovi nella vita a Londra, parlando in generale delle cose di tutti i giorni, ti piace? Il passaggio dalla tua Sicilia, lenta, tranquilla e luminosa deve essere stato alquanto traumatico.
A me non dispiace, indubbiamente è stato un bello shock, però era quello che mi serviva, cioè un cambio radicale di status e modo di vivere. Chiaramente è inutile lamentarsi delle cose che mancano dell’Italia, perché se hai preso questa decisione l’hai fatto per avere dell’altro. Per cui devo dire che, tirando le somme, io ci sto bene qui, mi rendo conto che la metropoli ha dei ritmi totalmente diversi, distanze infinite per cui uscire è sempre un viaggio, come un grande delirio. Però è un delirio che mi piace, è una città che mi da tantissimo, in ogni cosa. Ecco, se proprio devo essere sintetico, ti rispondo così: Questa città mi sta facendo crescere ogni giorno di più, in Italia mi spegnevo ogni giorno di più. E’ una frase che dico spesso, perché è la pura verità.

www.lucavullo.it

Photo Credits: Serena Marinelli

Intervista di Ugo Adolfo Mignola